La motivazione non esiste, perché è dannoso continuare a dire che non è motivato

“Non è motivato”, “Non ha voglia di studiare”, “Non riusciamo a motivarlo”. Queste sono frasi che sento pronunciare costantemente.

Eppure, provocatoriamente, rispondo: “La motivazione non esiste!”.

Per spiegare questa affermazione ai ragazzi chiedo loro: “Tutte le sere mangi? Secondo te chi prepara la cena ha sempre voglia di cucinare? Allora com’è possibile che ogni sera tu trovi da mangiare?”.

Seguendo il ragionamento di questo semplice esempio dovrebbe accadere di rimanere a digiuno più o meno spesso, però questo solitamente non accade.

Allora com’è possibile che i genitori siano costretti a cucinare indipendentemente dalla loro motivazione, mentre i figli devono “avere voglia” per poter studiare?

Nuovi e antichi orizzonti della motivazione

Cambiamo subito prospettiva: l’essere umano è geneticamente predisposto per essere motivato e provare piacere e soddisfazione nel fare.

Questa premessa è necessaria per smettere di raccontarsi scuse.

I genitori devono smettere di dire che il proprio figlio non è motivato perché non solo non cambieranno la situazione, ma anzi contribuiranno attivamente ad incrementare il problema.

I ragazzi devono smettere di dire che non hanno voglia e sono demotivati perché altrimenti si arrenderanno prima ancora di “iniziare a pensare di poterci forse provare”.

Ma se è inutile parlare di demotivazione, allora di cosa si dovrebbe parlare?

La risposta l’ha riassunta egregiamente D., un ragazzo di 15 anni con cui lavoro sul Metodo di Studio, in questa frase: “Ho capito che ci sono delle cose che devono essere fatte anche senza voglia”.

Questo “senza voglia” allarga l’orizzonte della motivazione da “tutto quello che è piacevole fare” a “tutto quello che va fatto”.

Un esempio illuminante è lo sport. Tutti gli allenamenti sono piacevoli? Si ha sempre voglia di faticare? Eppure è solo stringendo i denti e facendo quello che va fatto che si può provare la vera soddisfazione per i risultati che si raggiungeranno.

Altro esempio riguarda la scuola. Quasi tutti abbiamo avuto una materia odiata, quella dove raggiungere il risultato sembrava impossibile. Per me questa materia è stata l’inglese: in cinque anni di scuola superiore sono riuscito a prendere solo tre sufficienze. Eppure non ho mai festeggiato tanto come quelle tre volte! Questo accade perché è l’investimento che determina la soddisfazione finale, per raggiungere ognuno di quei 6 ho dovuto impegnarmi molto più che per prendere 8 in matematica.

Ma come si fa nella pratica a cambiare questa prospettiva?

[Per conoscere le tipologie di motivazione coinvolte nella scuola leggi Motivazione: la giusta spinta verso la meta]

Impegno e investimento: gli ingredienti della motivazione

Come ho scritto nel paragrafo precedente è l’investimento che fa la differenza ed è proprio in questo che solitamente gli adulti e gli insegnanti sbagliano.

Un frequente errore, che mi sorprende ancora, lo riscontro quando i genitori mi dicono: “Abbiamo continuato a dirgli che noi non vogliamo l’8 o il 7, ma che ci basta la sufficienza”.

Questa frase ha due ripercussioni: la prima è un’intromissione del ruolo genitoriale all’interno di una sfera sensibile del figlio quale il sentirsi efficace in base al proprio potenziale; la seconda la svalutazione del figlio perché si abbassa l’asticella e quindi si svalutano le sue risorse e potenzialità.

Ed è proprio quest’ultima modalità che addestra i figli a non credere in loro stessi e a non fare, perché “tanto è inutile” o “è troppo difficile”.

Infatti la parola motivazione, che deriva da “motus”, si riferisce al movimento, al fare. È quando non si insegna a fare che non si incentiva a impegnarsi per raggiungere i propri obiettivi. Quindi l’opposto del motivazione non è la “non voglia”, ma il “non fare”.

Per spiegarvi questo punto vi lascio alla visione di questo breve video.

 

Ma come si fa a trasmettere il senso della motivazione?

[Per conoscere il rapporto tra il fare e la responsibilità leggi Permettimi di diventare responsabile!]

La motivazione è un valore da insegnare, non una proprietà da acquisire

Partiamo da un presupposto: la motivazione non è un pentolone da riempire.

La motivazione è un valore, un qualcosa in cui credere. Come l’onestà, il perdono e la fiducia.

Se vogliamo costruire il senso della motivazione per prima cosa dobbiamo chiederci: motivazione verso cosa? La risposta a questa domanda discrimina tra due modalità: la prima è il focus sul risultato (possibilmente immediato), la seconda è il focus sull’impegno (e del fare).

Scegliendo di investire nella prima modalità si cerca di motivare le persone parlando dei risultati da raggiungere (o che mancano), favorendo l’attivazione della famosa, ma fastidiosa, ansia da prestazione. Spesso si crede che il risultato sia una diretta conseguenza del proprio comportamento, mentre in verità il nostro potere di influire sui risultati è limitato dai vincoli della realtà dei fatti (ad esempio i voti scolastici vengono attribuiti dagli insegnanti secondo i loro criteri). Ci si costringe quindi a limitare la propria libertà di azione in favore di un adattamento (spesso passivo) alle varie situazioni.

Invece nella seconda modalità il focus è sull’impegno, che è indipendente dal risultato, ma permette di sfruttare nel modo più efficace ed efficiente le proprie risorse personali. Scegliendo di investire sull’impegno la motivazione diventa indipendente dai risultati, e si costruisce quindi la capacità di resistere alle difficoltà, di imparare dai propri errori, di non accontentarsi mai e di gioire profondamente per il conseguimento dei propri successi.

Per diventare persone di successo, motivate, affamate, dobbiamo focalizzarci sull’impegno, sviluppare la cultura dell’errore, ma soprattutto iniziare a fare.

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