Mio figlio non ha studiato, lo tengo a casa così non prende un brutto voto?

A volte i genitori, quando fiutano il pericolo di un brutto voto, hanno la tentazione di chiedersi: “Cosa devo fare? Non è preparato, meglio tenerlo a casa?”

Questa domanda, apparentemente semplice, sottende diversi risvolti in molti aspetti della crescita e dell’educazione dei figli, con ripercussioni spesso più negative che positive.

Tralasciando in questo articolo la trattazione, abbastanza banale, sui possibili vantaggi di questa scelta, mi focalizzerò sulle conseguenze meno ovvie, ma più radicate e profonde, che un genitore è tenuto a conoscere prima di imboccare strade “pericolose”.

Prima domanda: Chi è che ha paura?

Quasi tutti danno per scontato che sia solo lo studente ad aver paura del brutto voto, a soffrirne.

Solitamente, però, la verità viene negata. Perché nel momento in cui il genitore si chiede: “Lo tengo a casa così non prende un brutto voto?”, vuol dire che è lui, in prima battuta, ad aver paura ed a volte questa paura viene innescata nei figli.

Ma perché esiste questa paura nei genitori?

Le radici vanno cercate nella nostra società ultra-performante, non solo nei confronti degli studenti, ma anche verso i ruoli genitoriali. Infatti si chiede ai genitori di essere bravi, competenti, perfetti, di saper ascoltare, nutrire affettivamente, ma anche di controllare e far rispettare le regole. Queste ingiunzioni, suffragate da studi “scientifici” su come è giusto e su come ci si deve comportare, instaurano un forte giudizio non del tipo autovalutativo (cioè che permette un’analisi di cosa funziona e di cosa migliorare), ma del tipo giusto-sbagliato, togliendo lo spazio di riflessione e il potere di costruire una linea educativa, di provare e sbagliare (per un approfondimento puoi leggere l’articolo Il valore dell’errore per apprendere).

Questa impossibilità di sbagliare da parte dei genitori è la stessa che viene trasmessa ai figli, la stessa che fa credere ad uno studente che sia proibito sbagliare durante una verifica.

Questo è un argomento che emerge spesso nei percorsi sulle Difficoltà Emotive.

Seconda domanda: Qual è il messaggio che si vuole trasmettere?

Prima di cercare di salvare il figlio, evitandogli di fare esperienze negative, bisogna chiedersi: “Qual è il messaggio che voglio trasmettergli?”.

Spesso durante i miei percorsi di Parent Training e sul Metodo di Studio, nel momento in cui pongo questa domanda, osservo interessanti reazioni da parte dei genitori.

Così emerge che, ovviamente, nessun genitore vorrebbe insegnare a scappare, ma ad affrontare e superare le difficoltà. Allora perché, se l’obiettivo è insegnare a gestire le difficoltà, a volte si tengo i figli a casa da scuola per evitare un brutto voto?

I genitori, nel loro dialogo educativo, tendono a formularsi domande di questo tipo: “Credo che mio figlio sia in grado di superare le difficoltà che incontrerà?”, “Sarà in grado di reggere lo stress della situazione?” oppure “Saprà accettare la sconfitta?”

Ma le domande da porsi non devono riguardare solo i bisogni dei figli (come vedremo nella quarta domanda basta chiederlo nel modo giusto), ma come il genitore può porsi nei loro confronti.

Nei percorsi di Parent Training mi capita di chiedere: “Siete disposti ad accettare l’errore o il fallimento di vostro figlio?“.

Se la risposta è no, vuol dire non credere nella capacità del figlio nel reggere il peso delle difficoltà e nel risolversi i problemi da solo, forzandolo in un ruolo passivo e dipendente dagli altri.

Se la risposta è sì, vuol dire che si crede nelle capacità e nelle risorse del figlio, e così facendo lo si incentiva a risolversi i problemi da solo e lo si sostiene nel suo sviluppo dell’autonomia.

Terza domanda: L’autostima va protetta?

Una delle giustificazioni superficiali più usate dai genitori per evitare un fallimento è quella del “ha già una bassa autostima, non voglio che peggiori“.

Questo ragionamento, però, è la base dell’erosione dell’autostima e dell’autoefficacia percepita dei figli.

Infatti l’autostima è la capacità di stimare (cioè quantificare) il proprio valore. Questo non vuol dire che un’autostima funzionale sia quella di valore alto e quella disfunzionale sia quella di valore basso. Anzi, l’autostima è un processo fondamentale che ha lo scopo di rendere le persone aderenti alla realtà, di dare un senso ai fallimenti e una prospettiva di crescita personale.

Quindi, nel momento in cui si sceglie di proteggere dal fallimento per non abbassare l’autostima, la conseguenza diretta è quella di disinnescare il processo di sviluppo dell’autostima, creando quel senso di smarrimento tipicamente attribuito a chi ha una bassa autostima. Cioè la causa di una bassa autostima non è l’esperienza del fallimento, ma l’incapacità di conoscere le proprie risorse e fragilità. Ne consegue che, per prevenire i danni all’autostima, si finisce per danneggiarla, impedendo ai figli di vivere, scoprire e riconoscere tramite l’esperienza i propri limiti e le proprie risorse.

Quarta domanda: Qual è il bisogno nei momenti di difficoltà?

Quando uno studente comunica ai suoi genitori che non è abbastanza preparato per la verifica o chiede di rimanere a casa, qual è il suo vero bisogno?

Prima di tutto bisogna distinguere i bisogni più superficiali e pratici, come il bisogno di non andare a scuola, da quelli più profondi ed emotivi, come il bisogno di sentirsi capiti e accolti.

Nei ritmi forsennati della società moderna è molto più difficile, ma per questo ancora più importante, ricordarsi di riconoscere e di dare il giusto spazio all’espressione dei bisogni emotivi. Questo significa che ogni volta che viene espressa una necessità, il genitore non deve limitarsi a rispondere letteralmente alla richiesta, ma chiedersi e chiedere qual è il vero bisogno sotteso.

Per esempio, se uno studente chiede ai genitori di non andare a scuola perchè non si sente pronto, il genitore può scegliere se rispondere sul piano superficiale (“Ok, puoi stare a casa” oppure “No, vai a scuola lo stesso”) oppure scegliere di ascoltare i bisogni del figlio, scoprire cosa gli fa paura, dove si sente pronto e quali sono le sue aree fragilità (“Qual è la tua preoccupazione?” oppure “Di cosa hai paura?”).

Così si potrebbe scoprire che i ragazzi non hanno semplicemente paura di prendere un brutto voto, ma delle ripercussioni del voto nei contesti extrascolastici. Cioè che risulta essere la fonte della preoccupazione non è la scuola di per sé, ma come reagiscono ai risultati scolastici le persone a loro care. Quindi il bisogno profondo di uno studente non è quello di evitare il fallimento, ma di imparare a vivere e gestire le proprie emozioni.

Quinta domanda: Di chi è la responsabilità?

La responsabilità è la capacità di prevedere gli effetti delle proprie decisioni e di correggerle di conseguenza (per un approfondimento sul tema della responsabilità pui leggere Permetti di diventare responsabile). Quindi non si può parlare di piena responsabilità senza un piano, una previsione delle conseguenze e un riadattamento ad esse.

Purtroppo solitamente accade che, nel momento di dover prendere una decisione, non ci sia la possibilità di riferirsi a criteri precedentemente esplicitati e il genitore si trova a prendere la decisione senza prospettiva, guidato dalla contingenza del momento.

Allora come si fa a decidere quando è giusto che lo studente ha diritto di stare a casa da scuola per evitare un’esperienza potenzialmente negativa?

È fondamentale che la decisione venga presa riferendosi a linee guida che, come ci occupiamo nei nostri servizi di Scuola e Apprendimento, siano parte di un progetto coerente, condiviso e costruito insieme a tutti gli attori in gioco.

Questo progetto-guida, da costruire inseme allo studente stesso, agli insegnanti e a tutti i professionisti direttamente coinvolti, deve avere una prospettiva sia nel breve che nel lungo termine, tenere conto del messaggio educativo che si vuole passare e riconoscere sia i bisogni e i vissuti dello studente, ma anche quelli dei genitori.

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